SCRITTURA

La scrittura psicomagica, un'originale estensione della Programmazione Neuro-Linguistica, è una tecnica innovativa progettata per riscrivere le narrative personali dei clienti, trasformandole in potenti storie di successo. In PNL sappiamo che le persone vivono attraverso le storie che raccontano a sé stesse. Queste storie non solo riflettono il modo in cui percepiscono il mondo, ma influenzano profondamente le loro emozioni, decisioni e comportamenti.

Con la scrittura psicomagica, il coach PNL diventa un co-autore della vita del cliente. Attraverso una profonda esplorazione delle esperienze del cliente, il coach ascolta attentamente la narrazione originaria, identifica schemi limitanti e punti di forza latenti e, utilizzando i modelli linguistici e simbolici della PNL, riscrive quella stessa storia in termini di realizzazione e crescita personale. Questa riscrittura non è un semplice esercizio creativo, ma un intervento strategico che ristruttura le rappresentazioni interne del cliente, trasformando convinzioni auto-sabotanti in risorse funzionali.

Dal punto di vista tecnico, la scrittura psicomagica utilizza il potere del linguaggio per accedere a livelli profondi della mente inconscia. Il coach, attraverso l'uso sapiente di metafore, visualizzazioni simboliche e ancore linguistiche, crea una nuova narrativa che il cliente può interiorizzare, immaginare e vivere come reale. Questa nuova storia diventa un modello mentale che orienta i comportamenti verso obiettivi desiderati, rafforzando la fiducia e l'autoefficacia.

Il processo si articola in tre fasi fondamentali. Prima, il coach aiuta il cliente a raccontare la propria storia nel modo più dettagliato e autentico possibile, individuando blocchi e risorse nascoste. Poi, applicando i principi della PNL, riformula la narrazione in termini di trionfo, enfatizzando soluzioni, resilienza e il potenziale per il successo. Infine, questa nuova storia viene integrata attraverso tecniche di ancoraggio e revisione ripetuta, così che il cliente possa farla propria a livello conscio e inconscio.

Questo approccio non solo riorganizza la percezione del cliente, ma stimola anche cambiamenti neurofisiologici, sfruttando la neuroplasticità per creare nuove reti neurali associate al successo e alla soddisfazione. Per professionisti e accademici, la scrittura psicomagica rappresenta un potente strumento evidence-based, in grado di collegare il mondo della narrativa personale a interventi trasformativi strutturati e misurabili.


Caro Francesco,

mi chiamo Giulia e sono una giovane copywriter. In una frase, questo è il mio problema: mi sento intrappolata in una vita che non ho scelto davvero. Ogni giorno mi alzo e affronto una routine che detesto: lavoro in un'agenzia pubblicitaria dove nessuno mi vede davvero, le mie idee non contano e ogni sforzo per farmi apprezzare sembra inutile. A volte mi domando perché non mi licenziano, invece di tenermi in ufficio come un soprammobile. Sento di aver perso la passione per quello che faccio, ammesso che ci sia mai stata.

Le mie giornate si ripetono tutte uguali. Vivo da sola, e quando torno a casa, mi metto sul divano e scorro il telefono senza nemmeno pensarci. Mi manca l'allegria, la motivazione per fare qualunque cosa, e anche cucinarmi un piatto di spaghetti diventa un'impresa.

Sono passati tre anni da quando Mauro, il mio ex fidanzato, ha deciso di chiudere la nostra storia. Da un giorno all'altro se n'è andato e, per giustificarsi, mi ha scritto su WhatsApp: "Non ti amo più. Non so perché è successo ma è così. Inutile fingere, farei il tuo male e il mio".

Da quel giorno mi sento prigioniera di un passato che mi angoscia, aggrappata a ricordi che a volte sono dolci come il miele e altre pungenti come spine.

C'è stato un tempo, un anno fa, in cui mi ero imposta di cercare di riempire quel vuoto, di trovare un nuovo sorriso da incrociare al mattino, una mano da stringere nei giorni difficili. Ho creduto, più volte, di essere a un passo da quel miracolo chiamato amore, ma ogni volta la realtà si è dimostrata diversa. Ho incontrato sguardi che non hanno saputo fermarsi nei miei, voci che non sono riuscite a cullare il silenzio che porto dentro.

Ho provato, giuro. Mi sono messa in gioco, ho spalancato le porte della mia anima, sperando che qualcuno volesse entrarci e rimanere. Eppure, ogni tentativo si è perduto in un labirinto di incomprensioni, di tempi sbagliati, di destini che non si sono mai incrociati.

Ogni giorno che passa mi chiedo se sono io a sbagliare, se il mio cuore è diventato troppo esigente o se, semplicemente, non è ancora il momento. La verità, però, è che questo vuoto mi pesa. Mi manca terribilmente la gioia di avere qualcuno a cui raccontare i miei sogni, le mie paure, i piccoli dettagli di giornate qualunque. Mi manca l'amore, quello che fa sentire vivi e speciali.

Non ti scrivo per ricevere pietà o conforto, ma per liberare ciò che ho dentro. Io con le parole ci so fare, lo so bene, ma sembra che i miei colleghi non vogliano proprio capirlo. Mi dico che forse basterebbe un po' di ascolto, uno spiraglio di empatia, e che se nel loro mondo, che dovrebbe essere anche il mio, avessi almeno un amico, non mi troverei qui, a scrivere questa lettera. Ma io, da sola, non riesco a trovare parole abbastanza forti da confortarmi, così calde da spezzare questo gelo che ho nel cuore.

Tu cosa immagini per me?


Cara Giulia,

la sincerità e la forza dei tuoi sentimenti mi hanno ispirato a creare una storia in cui sei la protagonista luminosa di una vita ritrovata, finalmente libera dalla solitudine e dalle catene invisibili che ti hanno tenuta prigioniera per troppo tempo. 

Questo racconto è nato dal profondo desiderio di mostrarti quanto puoi brillare, perché a volte, nel buio più profondo, basta immaginare una nuova prospettiva per accendere una scintilla e ritrovare la strada verso la felicità.


TU SEI UN ALBERO

Sul bus che la portava in ufficio, Giulia si specchiò nel finestrino come se stesse guardando un quadro ricoperto di polvere, qualcosa che si osserva senza riuscire a coglierne l'essenza. Le gocce di pioggia che scivolavano lungo il vetro si sovrapponevano al riflesso del suo volto come lacrime che sembravano scendere direttamente dai suoi occhi. Sentiva in petto una furiosa agitazione, un conflitto tra il peso di ricordi che bruciavano ancora e un futuro che si ostinava a rimanere vuoto, come una pagina bianca che era meglio non scrivere piuttosto che sporcarla con il nero delle sue scelte, dei suoi rimorsi, dei suoi rimpianti.
Gli altri passeggeri erano tutti piegati sui loro schermi, con gli occhi fissi e le dita impegnate in una danza frenetica e silenziosa. Non c'era dialogo, né sguardi che si incrociassero, solo una solitudine condivisa, un'eco di vite chiuse dentro invisibili confini.
Giulia pensò che la sua solitudine era stata una scelta inavvertita e lenta, come un veleno assunto a piccole dosi. Una tossina di omissioni e rinunce che si accumulano nel sangue senza destare sospetti, finché non è tardi per tornare alla vita vera. Isolarsi era stato un modo per fuggire da una lunga scia di piccoli dolori, ognuno così insignificante da non richiedere una risposta immediata, ma messi insieme abbastanza potenti da farle odiare la vita. Un'amica che smette di chiamare, un sorriso che non arriva, un messaggio senza risposta, piccoli segni di trascuratezza che chiunque avrebbe potuto ignorare, e che invece per lei erano diventati crudeli indizi, la conferma di un sospetto insinuante e insidioso che le stava crescendo dentro: la certezza di essersi trasformata in una donna meno brillante, meno interessante, non abbastanza da trattenere un'amica o far voltare qualcuno per strada. E poi, il macigno più pesante: la fine di un amore su cui aveva investito tutta sé stessa, come un giocatore di poker che va all-in ed è convinto che quel rischio sia l'unica strada possibile per la vittoria. E invece, con la stessa rapidità brutale di un dealer distratto, il suo amato Mauro aveva gettato il banco all'aria, mostrandole che il gioco era finito. La mano che credeva imbattibile si era rivelata un bluff, ma non il suo: il bluff era stato di Mauro, con il suo amore fatto di mezze verità, di illusioni mai confermate, di parole calde ma vuote che avevano trovato una fine nel messaggio secco, brutale, di un uomo che aveva già voltato pagina da tempo. Un messaggio su WhatsApp: "Mia cara Giulia, io non ti amo più. Mi odio per quello che ti sto dicendo, ma odio ancora di più l'idea di fingere, di restare con te per paura di ferirti. Evita di cercarmi".

Ora, ripensandoci, Giulia si sentiva una stupida. Non perché aveva perso Mauro, ma per essersi lasciata abbindolare dall'idea, così perfettamente confezionata da film e romanzi rosa, che l'amore fosse una forza salvifica, una religione a cui affidarsi quando tutto il resto falliva. Non era stato Mauro a deluderla. Lui aveva solo recitato la parte che la vita gli aveva assegnato, con la sua inevitabile uscita di scena. La vera delusione era venuta da sé stessa, dalla sua incapacità di accettare che l'amore non è un contratto, ma un'improvvisazione. Non c'è nessuna rete di sicurezza sotto il trapezio. E lei, come una principiante ostinata, aveva scelto di lanciarsi comunque, convinta che il coraggio potesse bastare a farle spuntare un paio d'ali. Ma la caduta non aveva avuto pietà della sua audacia. Non c'erano state ali a sostenerla, solo il peso inesorabile della realtà che l'aveva trascinata giù, più velocemente di quanto fosse pronta ad accettare. Il ricordo di quella caduta, quell'atterraggio doloroso e senza grazia, continuava a presentarsi nei momenti più banali, come un'eco che non trovava pace. Sul bus, con il rumore delle ruote che sobbalzavano sull'asfalto pieno di buche, le sembrava quasi di sentirlo di nuovo: il tonfo sordo della sua sconfitta.

E adesso? Mentre fissava un paesaggio di periferia che scorreva monotono sotto una pioggia battente, con i lampioni che si susseguivano in una fila quasi ipnotica, intervallati da cespugli rinsecchiti e pali della luce, iniziò a chiedersi se fosse possibile ricominciare. Se ci fosse un modo per riprendere tutto quello che aveva vissuto e riscriverlo in un bilancio che non fosse in perdita.

Ma come si fa a investire di nuovo, quando non ti è rimasto niente? Quando il tuo cuore è una terra arida, senza più acqua e senza semi da piantare? Questi erano i pensieri che la accompagnavano mentre si recava al lavoro. Pensieri neri come compagni sgraditi che non poteva scrollarsi di dosso. Eppure, nel fondo oscuro di quelle riflessioni, si intravedeva un piccolo barlume di speranza: forse bastava iniziare con un passo, anche il più incerto, e vedere dove portava. Forse bastava credere, almeno un'altra volta, nelle persone. Forse quelle facce intorno a lei non erano così vuote come le erano sembrate a prima vista. C'erano rughe d'espressione, occhi che si alzavano, mani che stringevano borse come ancore. Una donna anziana stava leggendo un libro, e con un lieve movimento delle labbra ripeteva le parole come se volesse trattenerle un po' più a lungo. C'era una ragazza con le cuffie, il volto serio, la fronte appena corrugata in quella che sembrava una concentrazione intensa, quasi ostinata. Qualcosa di importante, pensò Giulia, forse una canzone che le parlava nel momento esatto in cui ne aveva bisogno. C'era un uomo in piedi che sfiorava con la mano il sedile accanto a lui, quasi a cercare una stabilità che il movimento incerto del bus non riusciva a dargli. Giulia lo osservò per un momento, catturata da quel tocco delicato, quasi involontario, che le sembrò qualcosa in più di una ricerca di equilibrio fisico. Forse quell'uomo stava cercando un punto fermo, una connessione interiore, la conferma che ci fosse ancora un luogo solido a cui aggrapparsi mentre la vita ci sbatte di qua e di là.

Giulia si riconobbe in loro, e fu come un'epifania luminosa, una porta che si spalanca e lascia entrare la luce e una ventata di aria fresca. Dove aveva visto solo muri – i volti impassibili, i silenzi densi, gli occhi abbassati – cominciò a intravedere ponti. Non ponti già costruiti, ma la possibilità che ci fossero le fondamenta. E questo, pensò, era abbastanza. Non risolveva nulla, ma era un inizio.
Quella scena di passeggeri su un bus, così ordinaria, divenne per lei improvvisamente radiosa. Sentì una gioia crescere nel petto, una pressione che sembrava provenire non dal bus, né dalla città, ma dal riconoscimento di una verità che aveva sempre evitato: il mondo intorno a lei non era sordo. Era lei che aveva smesso di ascoltare, chiudendosi in un guscio ermetico fatto di paure, rimpianti e quel senso di vuoto che l'aveva accompagnata per troppo tempo. In quel momento, guardandosi intorno, Giulia capì che ogni volto e ogni gesto – l'uomo che sfiorava il sedile, la ragazza con le cuffie, la donna che leggeva – raccontavano una storia. Non storie straordinarie, forse, ma vive, pulsanti, dense di significato. Non erano estranei indifferenti, ma un microcosmo di vite che, in quel preciso istante, condividevano lo stesso spazio e lo stesso tempo.
È questo, pensò, il primo passo per ricominciare: non chiedermi cosa il mondo ha da offrire, ma cosa io sono pronta a ricevere.

Ma quando il bus si fermò e Giulia si trovò all'ingresso del suo ufficio, il filo sottile di quella rivelazione si tese fino quasi a spezzarsi. Il familiare cigolio del portone, le pareti anonime, il vetro opaco delle finestre – tutto gridava una sola verità: nulla era cambiato.
Quando la giornata di lavoro prese il suo ritmo consueto, con la precisione deprimente di un orologio guasto che segna sempre la stessa ora, qualcosa in lei cominciò a spezzarsi. Non come si spezza una corda, con uno strappo netto, ma come si incrina un vetro sotto una pressione costante: lentamente, inevitabilmente. Le discussioni di lavoro si spegnevano quando lei interveniva, lasciandosi dietro un vuoto imbarazzante che le colava addosso come un rivolo di cera fredda. Ogni sua idea, ponderata con meticolosità, veniva liquidata con un'alzata di spalle o, peggio, con uno di quegli sguardi distratti che comunicano una cosa sola: non importa cosa dici, non importa chi sei, non importa se ci provi.
Ma quelle risatine a bassa voce, che normalmente si sarebbe sforzata di ignorare, ora sembravano delle lame. Non era più disposta a sopportarle. Un istinto di ribellione si insinuò dentro di lei come una pressione silenziosa, una preghiera muta che chiedeva di agire, di rompere gli schemi, di opporsi a chi la soffocava.
Quella mattina, Giulia sentì una rabbia silenziosa, non esplosiva ma densa, una rabbia che cresceva come un fuoco che arde senza fiamma. La sopportazione, quella vecchia compagna che si presentava puntuale ogni mattina, era un'intrusa. Come aveva potuto darle così tanto spazio, permetterle di insediarsi nella sua vita, giorno dopo giorno? Quel ruolo di comparsa, quello sguardo che si abbassava alla prima occhiata di disapprovazione, erano diventati una gabbia che lei stessa aveva costruito, sbarra dopo sbarra. Finché quella mattina, sentì che la gabbia si stava
incrinando. Non poteva ancora vederla crollare, ma sentiva il metallo cedere sotto il peso della sua insoddisfazione.
In quel cedimento si fece largo una domanda. Non una di quelle domande che ti colpiscono come un fulmine, ma una che sorge dal fondo del petto, lenta e inevitabile. Una domanda che non aveva mai osato formulare, ma che ora si ripeteva in loop nella sua mente: Perché sopportare tutto questo? Perché non fare qualcosa, oggi? Perché non alzare la voce, qui, ora? Perché no? Non sapeva ancora cosa avrebbe fatto, non aveva un piano o una strategia, ma quella voglia di dire basta, – decisa, semplice, ostinata – sembrava già un inizio. E per la prima volta, si rese conto che la sua
vita poteva cambiare.
Una premonizione, una speranza? In cuor suo, niente di tutto questo: era una verità già scritta, una certezza che le pulsava dentro, feroce e inarrestabile.

Finito l'orario di lavoro, decise di non tornare subito a casa. Anche se era inverno, un gennaio freddo e piovoso, si infilò in una libreria antiquaria poco distante dall'ufficio.
Non cercava nulla di specifico, ma sentiva di non volere passare l'ennesima serata sul divano, con il telefono a illuminare il suo viso stanco. Vagando tra gli scaffali, si imbatté in un libro con una copertina che ritraeva un uomo con la testa china su un foglio, intento a scrivere. Sul foglio che l'uomo stava scrivendo si leggevano parole che sembravano emergere dalla sua mente e dal suo cuore, suggerendo un processo di introspezione e dialogo interiore. In alto c'era il titolo, Scrivi cosa ti dice il cuore, seguito da un sottotitolo che sottolineava il tema della crescita personale e dell'autoevoluzione attraverso la scrittura. Giulia lo prese in mano, lo sfogliò distrattamente, e in quelle pagine trovò un messaggio che sembrava scritto per lei: "La mancata rivelazione dei nostri pensieri e sentimenti può essere nociva per la salute. La loro espressione può essere invece benefica".

Quella notte, seduta al tavolo della sua cucina, Giulia iniziò a mettere ordine nei suoi pensieri. Scrisse di Mauro, del giorno in cui l'aveva lasciata, delle sue parole crude e definitive, del vuoto che ne era seguito. Scrisse delle sue giornate tutte uguali, della solitudine soffocante del suo appartamento, e del senso di inutilità che l'aveva accompagnata al lavoro per troppo tempo. Ma, per la prima volta, scrisse anche di ciò che voleva: una vita piena di amici, amore e risate. Una vita in cui sentirsi necessaria.

Il giorno seguente, durante una riunione in cui il suo capo le aveva bocciato l'ennesima idea senza nemmeno fargliela spiegare, Giulia si alzò in piedi e parlò. Non per difendere quell'idea, ma per difendere sé stessa.
"Mi chiedo se sappiate davvero chi sono," disse, con la voce che sorprendentemente si era fatta dura. "Sono qui da tre anni e non credo che abbiate mai davvero ascoltato una mia idea fino in fondo. Non pretendo di essere brillante, ma so di avere qualcosa da offrire. E se voi non lo vedete, forse il problema non sono io".
Nella stanza calò un silenzio che sembrava eterno. Il capo la fissò con aria indecifrabile, un misto di curiosità e giudizio che la fece sentire sotto un microscopio. Era evidente che quell'uomo stesse cercando di smontarla pezzo per pezzo per capire dove si nascondesse l'origine di quel gesto inatteso di ribellione. I colleghi si scambiarono sguardi imbarazzati.
Giulia non attese una risposta. Prese il suo blocco degli appunti e lasciò la sala dicendo, con tono secco: "Da oggi sono libera. Non mi vedrete più!"

Il cuore le batteva forte, il fiato si spezzava in respiri brevi e affannosi, ma camminò sotto la pioggia, fino a casa. E all'improvviso, mentre camminava e tremava per il freddo, provò una strana leggerezza, come se un blocco di cemento che si era portata dietro per anni si fosse staccato e rotolato via dietro di lei.

Nei giorni seguenti, come aveva presagito, qualcosa si mosse. Non fu un cambiamento risolutivo, non ancora. Ma Giulia cominciò a prendere decisioni piccole, ma importanti. Si iscrisse a un corso di scrittura che aveva sempre rimandato. Invitò a cena la sua anziana professoressa di italiano del liceo, che le era molto simpatica. Rispose con sincerità a un messaggio su una app di incontri, senza nascondersi dietro un tono disilluso.
E poi arrivò una proposta inaspettata. Marilena, una compagna dell'università riapparve dopo un silenzio di dieci anni e le chiese di scrivere il testo per il sito di una startup di mentoring in cui giovani professionisti potevano connettersi con degli esperti. Non le veniva offerto un gran guadagno, ma abbastanza per farle intravedere la possibilità di un futuro
diverso. Lavorarono insieme per settimane, e per la prima volta, Giulia si sentì apprezzata. Non per quello che fingeva di essere, ma per quello che era. Il muro che la isolava aveva finalmente delle crepe da cui entrava la luce. E quella luce era abbastanza per farla sentire viva.
Non aveva ancora trovato il grande amore, ma – sorpresa! – si era resa conto che le importava molto meno di quanto avesse creduto per quasi tutta la sua vita adulta. Smise di cercarlo con quell'ossessione metodica e maldestra, da detective mal pagato, e cominciò a guardare altrove. La scrittura, ad esempio, non era più solo un passatempo terapeutico: era diventata un rifugio, un giardino segreto dove poteva essere finalmente sé stessa. Anche le amicizie, lasciate a languire per anni, stavano iniziando a ricevere attenzione, generosità, trasporto.
Ogni giorno sembrava portare con sé qualcosa di inatteso: una conversazione nata per caso, con persone appena incontrate, non si spegneva dopo pochi scambi ma si accendeva di domande, idee e vite condivise; una passeggiata senza meta la conduceva in un angolo della città che non aveva mai notato prima, silenzioso e perfetto; lo scodinzolio allegro di un cane incontrato per strada le ricordava quanto bastasse poco per provare una gioia autentica. Persino il silenzio del suo appartamento, quello che un tempo la soffocava, era diventato una presenza diversa, più dolce.
Non era più sola. Era, per la prima volta, con sé stessa.

Si iscrisse a un corso di scrittura creativa che si teneva in una di quelle stanze che sembrano progettate apposta per sabotare qualsiasi aspirazione estetica. Una stanza squadrata di una piccola biblioteca di periferia, illuminata da luci fluorescenti che ronzavano impercettibilmente, ma non per chi aveva orecchie sensibili. Le sedie erano di plastica, tutte diverse l'una dall'altra, e i tavoli sembravano assemblati in fretta, come se fossero stati recuperati da una sala riunioni in disuso. Un odore leggero ma persistente di carta vecchia si mescolava a quello del caffè proveniente da un thermos che qualcuno si era portato dietro. Eppure, nonostante la modestia dell'ambiente, c'era qualcosa di accogliente nell'aria, un calore umano che si diffondeva lentamente quando le persone prendevano posto, aprivano i loro taccuini e si preparavano ad ascoltare.
L'insegnante arrivava sempre cinque minuti dopo l'orario stabilito, con un ritardo esattamente calibrato per trovare la sala piena e non essere costretto a cominciare la lezione ascoltando le lamentele di qualche aspirante scrittore a cui avevano rifiutato un manoscritto.
Si chiamava Vincenzo. Aveva quarant'anni e i capelli scuri, qualche ricciolo sulla fronte e gli occhi profondi, inquieti, con uno sguardo di chi ha visto molto più di quello che racconta e si diverte a lasciare il resto nascosto. Indossava sempre maglioni larghi e jeans scuri, e portava con sé un taccuino sgualcito che appoggiava sulla cattedra con una cura quasi circospetta, come se contenesse segreti che nessuno avrebbe mai dovuto leggere. Quando parlava, la sua voce aveva un timbro morbido, quasi ipnotico, con una lentezza che sembrava calcolata per dare a ogni parola il tempo di sedimentare. Non leggeva mai appunti, non guardava dispense. Tirava fuori immagini, idee e personaggi con una naturalezza che poteva solo essere il frutto di anni di lavoro sulla scrittura. Era nei dettagli che brillava: i personaggi che descriveva erano così vividi che sembrava quasi di sentirne la voce, di percepire il rumore dei loro passi o il fruscio dei loro vestiti, come se li avessi appena incrociati per strada.
Giulia non lo aveva messo a fuoco, non subito. Era troppo concentrata sulle esercitazioni, sui brani che si ostinava a riscrivere senza mai esserne soddisfatta. Ma qualcosa, a un certo punto, aveva cominciato a mutare. Non un colpo di fulmine, non un'attenzione chiara e netta, ma una sensazione che lentamente prendeva corpo, come una luce che filtra dalle persiane e, all'improvviso, ti fa sentire la pelle calda.
Si erano ritrovati accanto al tavolo del caffè, lei con il bicchierino di carta in mano, lui che cercava con una certa goffaggine di aprire una bustina di zucchero. Avevano scambiato un'opinione su come le persone tendessero sempre a scrivere storie autobiografiche mascherate da narrativa. Lui aveva detto qualcosa che l'aveva fatta ridere, una frase sui gatti che farebbero più letteratura delle persone perché sono meno appesantiti dall'inclinazione a riflettere e analizzare. Lei aveva riso, non solo perché Vincenzo era stato divertente, ma perché quel modo di vedere le cose, quella capacità di cogliere un dettaglio e farlo brillare per un attimo, l'aveva colpita. Era stato un bel momento, uno di quelli che, miracolosamente, diventano il punto esatto in cui tutto cambia di prospettiva.
Al termine della lezione, mentre tutti raccoglievano le loro cose e si dirigevano verso l'uscita, Vincenzo si era fermato accanto a lei.
"Si vede che sei una copywriter, ma anche con la narrativa te la cavi bene", aveva detto, senza enfasi, come se fosse un dato di fatto più che un complimento.
Giulia aveva sorriso, non apertamente, non con quel genere di sorriso che si spalanca come una finestra inondata dal sole, ma con un movimento più sottile e obliquo, la piega delle labbra che cambia angolazione e rivela, quasi con timidezza, il compiacimento che si prova quando qualcuno vede in te qualcosa che speravi fosse visibile.

Da lì in poi, nei giorni successivi, il corso di scrittura si caricò di significati che andavano oltre gli insegnamenti, gli esercizi e le chiacchiere durante le pause. Ogni lezione era una trama sottile di gesti che dicevano senza dire, di possibilità sospese nell'aria, di sguardi che bastavano ad accendere un brivido, ma non abbastanza per dargli un nome. Un'esperienza a doppio binario dove la realtà concreta – scrivere, riscrivere, ascoltare, parlare – si intrecciava con una specie di realtà emotiva parallela e impossibile da ignorare. Non era amore, o almeno non quello che la gente definirebbe amore, ma qualcosa di più sottile, più strano, come un impulso primordiale a scoprire di più.
Giulia si trovò intrappolata in uno stato di tensione sottile e costante che non era proprio eccitazione ma qualcosa di più simile a un'attesa che si trascina troppo a lungo, una corrente elettrica che attraversa un filo senza trovare un interruttore. Non era esattamente Vincenzo a farla fremere: era l'idea che lui portava con sé, una remota ma seducente possibilità che la sua presenza potesse spostare il corso delle cose, cambiare la traiettoria della sua vita anche di pochissimo, quanto bastava per farle credere che non avrebbe più vissuto una successione di giorni indistinguibili uno dall'altro, tutti perfettamente intercambiabili.

Un mese scivolò via, poi un altro, e per chi avesse avuto una sorta di radar per quei lenti spostamenti del cuore che accadono a chi misura ogni passo perché teme che il terreno non reggerà, sarebbe stato evidente che qualcosa stava succedendo. Niente che si potesse indicare direttamente e dire: "Ecco, tra quei due è amore vero," ma una serie di piccoli, quasi invisibili turbamenti che, accumulandosi, cominciavano a fare massa.
Lui ascoltava quando lei parlava, e non solo con le orecchie: sembrava raccogliere ogni sua parola come un oggetto prezioso. Un giorno, mentre sfogliavano insieme un libro illustrato, Vincenzo si fermò su un'immagine: un albero solitario, spoglio, al centro di un campo innevato.
"Questo sei tu," disse, puntando il dito verso Giulia, come a isolarla dal resto del gruppo. "Quello che ti chiedo è dare una voce all'albero. Scrivere ciò che lui sta pensando".
"Io, un albero spoglio?" disse lei. "Non mi sembra un complimento."
"No", ribatté lui con calma. "L'albero sei tu adesso. Ma l'inverno non è per sempre".
Quelle parole si inchiodarono ai suoi pensieri con una forza che non avrebbe mai ammesso apertamente. Non era il tono, né il modo in cui le aveva dette, ma la precisione spietata della loro verità. Ci pensò per giorni, rigirandole nella mente come si rigira un oggetto sconosciuto tra le mani, cercando di capirne il peso, la forma, il significato. E alla fine si convinse che Vincenzo aveva ragione. L'inverno dell'insoddisfazione, per quanto interminabile e gravoso possa sembrare, non dura mai per sempre e, come scrisse Shakespeare, si farà estate folgorante.
Giulia concluse che Vincenzo avesse ragione, ma solo in parte. Lei era l'albero innevato, immobile, con i rami che sembravano piegarsi sotto un peso che era diventato così familiare da sembrare inevitabile. Eppure, contro ogni aspettativa, qualcosa stava cambiando: uno scioglimento graduale che portava via un millimetro di gelo alla volta. Non era ancora ottimismo, ma un accenno, una disponibilità a credere, almeno per un attimo, che le cose potessero essere diverse, che ci fossero emozioni ancora sconosciute, pronte ad aspettarla, anche se non sapeva dove l'avrebbero condotta.
La sera stessa, tornò a casa con una bottiglia di vino e una pizza. Non aveva invitato nessuno, quella festa era per lei. Spense le luci, accese una candela e si sedette sul pavimento, con la schiena appoggiata al divano. Per la prima volta dopo tanto tempo, non aveva paura del silenzio. Si versò un bicchiere e brindò, da sola.
"A me," disse sorridendo. "A tutto quello che ancora deve arrivare."

Intanto, il lavoro sui testi per la startup di mentoring procedeva con una fluidità che Giulia non aveva mai sperimentato prima. Tra lei e Marilena si era creato un equilibrio raro, privo di tensioni o aspettative irrealistiche. Si incoraggiavano con discrezione, senza bisogno di grandi parole, lasciandosi libere di esplorare idee e soluzioni. Un impulso creativo le spingeva avanti, trasformando quel lavoro quotidiano in qualcosa che cominciava a prendere forma, una costruzione lenta ma solida, che cresceva un pezzo alla volta. Quando Marilena le versò il primo bonifico, accompagnandolo con parole di sincero apprezzamento, Giulia ebbe un doppio pensiero: da una parte la gioia improvvisa e irrazionale di vedere, nero su bianco, una cifra che le ricordava che i suoi problemi di lavoro non erano più problemi. E dall'altra, quel senso di incredulità cronico, quel "Sul serio io mi sono meritata questo?" che era la memoria di anni passati a credere alle definizioni dei suoi ex colleghi che la ritenevano un'incapace, lo dicevano apertamente o, peggio, lo lasciavano intendere con parole che si fermavano un attimo prima di diventare insulti espliciti.

Il corso di scrittura stava per concludersi, e una mattina Giulia si svegliò con una nuova, esaltante consapevolezza: non era più la donna che, fino a poco tempo prima, attraversava la città per andare al lavoro con lo spirito di una condannata a morte. Non che avesse risolto ogni problema o trovato una felicità assoluta – la felicità, aveva capito, non poteva essere un traguardo ma un movimento, un continuo andare avanti. Ma si sentiva diversa. Più forte e più vera. Le ferite si erano trasformate in cicatrici, e quelle cicatrici le ricordavano che aveva lottato e aveva vinto.
Adesso era pronta a scrivere il finale della sua storia. Dopo tutto quel tempo trascorso a scrivere, cancellare, riscrivere, rimuginare su come trovare un equilibrio che potesse dare senso a tutto – un racconto, una relazione, un lavoro – finalmente si rese conto che quel potere di dare una direzione le era sempre appartenuto, anche se l'aveva lasciato da parte per tanto tempo da dimenticarne perfino l'esistenza. E così, quella mattina, si ritrovò con una decisione in testa: avrebbe detto a Vincenzo quello che provava per lui.

Arrivata in biblioteca, Giulia si fermò davanti alla porta socchiusa, quel tanto che bastava a lasciarle intravedere ciò che accadeva all'interno.
Vincenzo parlava già, con un tono appassionato che scolpiva le parole nell'aria, facendone monumenti effimeri, costruiti per durare il tempo di un pensiero ma capaci di imprimersi con forza nella memoria di chi ascoltava. Ogni frase sembrava lavorata, cesellata, come se il linguaggio fosse un materiale vivo, plasmato lì, davanti a tutti, senza esitazioni. L'argomento dell'ultima lezione era il desiderio come forza motrice che attraversa e plasma i personaggi, le storie, la letteratura.
"Il desiderio" disse "è il motore nascosto di ogni grande opera. Non è mai solo ciò che i personaggi vogliono ottenere, ma ciò che li definisce e li rende vivi. Pensate ad Anna Karenina, a Emma Bovary. Non c'è narrazione senza tensione, e non c'è tensione senza un desiderio insoddisfatto. Gli stessi autori scrivono per un desiderio insopprimibile, per dare una forma a qualcosa che li tormenta".
Giulia lo osservava da uno spiraglio della porta, senza muovere un muscolo, catturata non solo dal significato, quanto dal modo in cui Vincenzo parlava, come se stesse scavando nell'animo di chi lo ascoltava.

"Il desiderio nella letteratura è il luogo dell'ambivalenza. Non è mai puro, mai semplice. È sempre una miscela di aspirazione e conflitto, di luce e ombra. Leggete Lolita di Nabokov. Non importa quanto sia disturbante, quel libro ci tiene incollati perché parla di qualcosa che tutti conosciamo, anche se non vogliamo ammetterlo: il desiderio che sfugge al controllo e ci trasforma in una belva assetata d'amore. E proprio in quella mutazione si annida la verità della narrativa".
Gli allievi sembravano rapiti. Persino quelli che di solito sembravano più interessati alla piega del margine dei loro appunti o alle notifiche sui loro telefoni ora erano stranamente immobili, con gli sguardi agganciati alla figura al centro della stanza, come se, per una volta, ci fosse qualcosa che meritava di essere ascoltato.
Giulia sentì un'improvvisa vertigine, non tanto perché lui fosse l'uomo a cui avrebbe confessato il suo amore, ma perché, in quel momento, sembrava essere l'unico uomo al mondo che avesse qualcosa da dire.
Si prese ancora un momento per osservarlo dallo spiraglio della porta, poi decise che non si sarebbe fermata troppo a pensare. Aveva promesso a sé stessa che gli avrebbe parlato, anche se il peso di ciò che stava per fare cominciava a farsi sentire, come una colla vischiosa che le invadeva la bocca, scendeva in gola, si annidava nel petto.
Entrò.
Vincenzo le diede il benvenuto con un rapido cenno della mano, senza interrompersi, e lei si sedette in un posto all'ultima fila, in silenzio. La sola cosa a cui pensava era che non avrebbe aspettato la fine della lezione per confessare il suo sentimento. No, doveva farlo nella pausa caffè. Se non avesse trovato il coraggio in quel momento, non lo avrebbe trovato mai.

La pausa arrivò, e come sempre, un piccolo gruppo si radunò attorno alla macchinetta dell'espresso. Vincenzo era lì, con un bicchiere di carta in mano e un'espressione assorta.
"Posso rubarti un momento?" chiese Giulia, con la voce che non tremava, nonostante tutto.
Lui annuì, rinunciando al caffè e seguendola verso una delle finestre. Da vicino, Vincenzo aveva un odore di tabacco e carta, una mescolanza di fumo e vecchi libri che lei associava al tipo di uomini che vivono da soli. Alle dita non
portava anelli, questo l'aveva notato da tempo, e non aveva mai accennato a una moglie o a una fidanzata.
Giulia si irrigidì, quasi volesse trattenere il momento, costringere il mondo a rallentare prima di aprirsi completamente. Non era solo una frase, un'idea o una decisione; era l'esplosione di qualcosa che da troppo tempo si accumulava, comprimendosi in un
nodo al petto. Inspirò profondamente, ma l'aria sembrò abbandonarla subito, come se il corpo stesso si fosse arreso alla sua vulnerabilità. Gli occhi di lui, calmi e ignari, erano un enigma insopportabile. Giulia inspirò profondamente, e quando finalmente parlò, il sentimento emerse con una forza che non avrebbe mai immaginato: "Ti amo" disse, senza abbassare lo sguardo. "Ed è una cosa che non so più tenere dentro".
Qu
elle parole così nude, esposte, erano troppo invadenti per essere ignorate. Giulia aspettò, senza muoversi, mentre il silenzio si dilatava intorno a loro, e in quell'attesa vibrava tutto il peso della sua confessione.
Dopo una pausa che sembrò più lunga del necessario, lui pronunciò con calma: "Giulia, io ti ammiro. Hai avuto il coraggio di mostrarti per come sei davvero. Questo è raro."
Raro, pensò lei, un poco delusa. Che tipo di parola è? Una parola che non promette niente, non abbraccia e non
respinge, ma sta lì, come una porta socchiusa che non invita a entrare né vieta di farlo, lasciando tutto sospeso in un limbo di possibilità irrisolte.
"Non hai altro da dire?" sospirò.
Vincenzo alzò una mano e, con estrema delicatezza, le sfiorò una ciocca di capelli che le era scivolata sul viso, rimettendola al suo posto. Un gesto semplice, pieno di tenerezza, che parlava più di qualsiasi parola.
"Quello che hai detto è tanto, ed è importante. Perciò voglio rispettarlo, perché viene dal cuore e merita attenzione, non parole che potrebbero sminuirlo."
Giulia aveva immaginato un finale diverso, più perfetto, quasi cinematografico: "Ti amo", "Anch'io". Breve, netto, senza ambiguità, senza il peso delle cose lasciate a metà. E invece aveva ottenuto qualcosa di meno risolutivo. Non era il finale che avrebbe voluto, ma era reale, e così, si disse, poteva bastare.
Seguì altro silenzio, ma stavolta non era saturo di dubbi. Giulia era serena, perché l'aver parlato, l'essersi mostrata, era già una vittoria. Qualsiasi cosa sarebbe venuta dopo – la vicinanza, la distanza, l'intimità o persino il nulla – l'avrebbe accettata. Perché in quel momento l'importante era che le sue parole avessero trovato un posto dove poggiarsi. Avevano toccato qualcosa in lui, una parte nascosta e forse mai raggiunta prima, e tanto era bastato per farla sentire accolta.
Prima di riprendere la lezione, Vincenzo le sorrise: "Mi hai reso la giornata migliore". Poi, abbassando la voce, aggiunse: "Che ne dici di berci qualcosa appena ho finito? Così continuiamo a parlare, senza tutta questa gente intorno."

Quando uscirono dalla biblioteca, prima lei e dopo lui, per sfuggire agli occhi indiscreti, il cielo sopra la città era velato da un'ombra delicata, quella tonalità tra il giorno e la notte che rende ogni cosa più intima. Si incontrarono in un vicolo nascosto e tranquillo, uno di quei luoghi che nessuno nota mai ma che sembra esistere solo per questo tipo di incontri furtivi.
Di bere non ebbero più voglia.
Le dita di Vincenzo scivolarono sulla pelle di Giulia come a cercare mappe che solo lui poteva decifrare, e il respiro di entrambi divenne un ritmo condiviso. I confini e le paure che avevano trattenuto i loro desideri si sgretolarono senza rumore, lasciando spazio a un intreccio di pelle, calore e tremore. Il modo in cui le labbra si trovarono, il lento cedimento dei loro corpi, la tensione che esplodeva, tutto sembrava racchiuso in una danza primordiale, inevitabile e perfetta. Nulla più importava: erano loro due, finalmente insieme, come se ogni cosa accaduta dal giorno che si erano conosciuti dovesse portare esattamente lì.

Quella sera, prima di addormentarsi, Giulia prese il suo quaderno e iniziò a scrivere. Non perché sentisse il bisogno di sfogarsi, come accadeva prima, ma per festeggiare il momento, quella leggerezza nuova che le ricordava quanto fosse bello sentirsi viva. Non scrisse di Vincenzo, o di ciò che avevano fatto, o di come si sentiva. Non scrisse nemmeno della promessa che si erano fatti: "Rivediamoci subito, domani!"
Scrisse di un albero. Un albero spoglio, solitario, nel mezzo di un campo innevato. Scrisse del modo in cui il vento muoveva i suoi rami secchi, del rumore che facevano sotto il peso della neve, un rumore che non era triste né allegro, ma inevitabile. Scrisse di come quell'albero, nonostante tutto, fosse vivo. Non in modo evidente, ma in quel modo nascosto che solo gli alberi conoscono, con la linfa che scorre nel segreto e i loro rami che si piegano ma non si spezzano.
E mentre scriveva, capì qualcosa. Non tanto sull'albero, ma su di sé. Capì che quell'albero non stava aspettando l'estate. Non perché avesse smesso di desiderarla, ma perché, per la prima volta, era in grado di vedere la bellezza anche nell'inverno. Non come una stagione di transizione, ma qualcosa di completo in sé stesso, con le sue luci fredde e i silenzi e la sua capacità di mettere tutto a nudo.
Quando smise di scrivere, si sentì leggera. Non felice, ma leggera. E per la prima volta, felice.

Raccontami i tuoi dolori, le sconfitte, i dubbi. Io scriverò la storia della tua rinascita. Ciò che leggerai diventerà realtà.

Hai mai pensato che la narrativa può essere il punto di partenza per trasformare la tua vita?

Immagina di prendere tutto ciò che ti pesa – le sfide, i ricordi che fanno male, gli sbagli che hanno scolpito cicatrici nel tuo cuore – e trasformarli nella storia di una rinascita.

Io sono qui per aiutarti a farlo. Scrivi, senza paura, tutto quello che stai vivendo: le difficoltà, i rimpianti, le paure. Scrivi per liberartene, per dare voce a ciò che ti blocca.

Io prenderò le tue parole e le trasformerò in un racconto che parla di te, ma non nella versione attuale, intrappolata dalle difficoltà. Sarà una storia che racconta di come hai trovato la forza di rialzarti e conquistare la felicità che meriti.

Se stai attraversando un periodo complicato, questo è il momento di iniziare un percorso che combina scrittura espressiva, narrativa e psicomagia jodorowskyana.

Se hai dubbi su quanto appena letto, lascia che ti dia un esempio.

Qui di seguito, la prima lettera somiglia a quella che potresti avermi scritto tu, con lo stesso cuore e la stessa intensità.
A seguire, un racconto potente, ispirante e unico, simile a quello che riceverai e ti mostrerà non solo chi sei, ma anche chi puoi diventare. 

Nota Bene:
La scrittura psicomagica non ha pretese terapeutiche nel senso clinico del termine, ma agisce sul piano simbolico, artistico e immaginativo. 


Come coach PNL, sono a tua disposizione per rispondere a qualsiasi domanda riguardante il miglioramento personale, la gestione delle emozioni, la comunicazione efficace e le strategie per superare ostacoli mentali e comportamentali. Che si tratti di trasformare una convinzione limitante, trovare motivazione o migliorare le tue relazioni, puoi contare su di me.

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